Fabrizio Soldini è nato nel 1957 a Mendrisio, Canton Ticino. Vive e lavora a Novazzano, suo paese di origine, nella casa-atelier dove aveva trascorso la sua prima infanzia.
Probabilmente si tratta di un ritorno alle origini, perché per anni ha girovagato per il Mendrisiotto. La pendolarità si è però accentuata frequentando come molti altri ticinesi l’Accademia di Brera, ciò nei primi anni Ottanta ed in seguito la città di Milano medesima: gli amici, i colleghi, i musei, le gallerie… conservando però l’abitudine di tornare in Ticino.
All’arte Soldini ci è arrivato come su di un tappeto di velluto. Il papà, Attilio, aveva frequentato il Politecnico di Zurigo, la facoltà di architettura, dipingeva a sua volta: paesaggi, volti e figure femminili. Esisteva insomma una sicura familiarità con l’arte in quella casa.
A dipingere ha iniziato prima dei vent’anni con dei paesaggi alla Van Gogh e ritratti alla Kokoschka. È stata l’epoca della grande fuga; un bel giorno se ne andò verso il Canada e gli Stati Uniti, trovando una realtà sociale molto diversa da quella europea: da noi si avvertivano le avvisaglie degli anni di piombo, là continuavano gli anni sessanta.
«Ho vissuto l’America come guardando un film, con un senso profondissimo della libertà. È stata una fuga da questa nostra realtà che noi giovani sentivamo stretta, verso le fonti del jazz, del blues e del rock; verso il mito americano cantato da Guccini, che non voleva dire ‘successo’, come si intende adesso, ma proprio ‘libertà’. Là ne approfittai per visitare quanti più musei possibile, folgorato dai quadri dell’‘Action painting’ di Pollock, dalla violenza sulla tela di De Kooning, dall’astrattismo di Franz Kleine, Sam Francis, in parte Motherwell, Mark Rothko e altri. Ho scoperto che con la pittura si poteva osare, esagerare e quindi essere liberi dai rapporti servili con la tradizione e l’arte accademica. La musica ‘back sound’ e la pittura ‘born in USA’ esaudivano il mio desiderio di oltrepassare delle frontiere, lo stesso che mi premeva dentro e che forse era di tutta la mia generazione».
Questa fuga improvvisa è stata importante nella vita e nelle scelte di Soldini. Gli ha dischiuso orizzonti, gli ha fatto superare gli steccati delle scelte scontate. E stato un viaggio soprattutto mentale o mentalmente molto sentito, tanto che ci ritornò più volte nel corso degli anni, viaggiando su e giù per il continente Nord Americano, visitando luoghi, territori, metropoli, lembi di umanità.
«Non sempre è facile viaggiare negli States, ‘On the road’, le differenze sociali ti colpiscono alla bocca dello stomaco così come la violenza dilagante. Questo comunque non mi ha tolto il piacere di scoprire cose nuove: fenomeni culturali inediti, esposizioni ‘mega’ in spazi da sogno; la cordialità della gente umile nelle campagne; la forza magnetica della natura nella ‘West Coast’, In California, in Arizona nel Grand Canion, nel New Mexico, nelle riserve indiane Navajo: autentici ‘spazi di libertà’, profondamente carichi di spiritualità e misticismo ad alta concentrazione energetica, dove tuffarsi in una ‘full immersion’… ».
I viaggi, la letteratura legata alla «Beat generation», alla poetica dei «poeti maledetti» francesi, alla filosofia orientale ed esistenzialista hanno fatto sì che la sua pittura si esprima preferibilmente in tele di grande dimensione. È uno spazio mentale che va sulla tela, a prescindere da esigenze di tipo commerciale o pratico, dal voler vendere o appendere un quadro. Contano molto il gesto, lo spazio per l’elaborazione, la dislocazione prospettica, il ritmo con il quale rendere sensazioni e processi interiori, desideri e paure, crepacci dell’inconscio e documenti della memoria.
I suoi quadri hanno un che di riassuntivo anche in senso schizofrenico; flash di vita e di sensazioni, sovrapposizione di immagini, lampi di stati d’animo.
Una pittura intesa come «luogo di libertà», dove immergersi e viaggiare assaporando il gusto e i sapori della vita…