di Philippe Daverio
Profonde gole di roccia grigia, durissima, s’intagliano nelle montagne. Ogni tanto una cascata d’acqua gelida, purissima, cade dai piani alti dove le nevi sono eterne e formano un deserto bianco dall’orizzonte zigrinato. I veri grattacieli.
Scendendo dal nord e valicando passi terrificanti, Gambrinus e le tribù degli Urani hanno contaminato di ansie arcane i popoli delle colline, antichi insubri inclini ad un diverso disordine psichico dopo la conversione a Roma e a Bacco.
Ognuno pratica i riti delle arti visive secondo i miti che la storia gli ha sedimentato addosso.
Poi la calma dei laghi prealpini, erotica e deprimente, sempre tiepida. E la dolce melanconia delle colline erbose che questi laghi li guardano, sotto la linea delle creste.
Ognuno secreta sentimenti secondo i climi nei quali sono cresciute le proprie tribù.
Hermann Hesse l’alemanno, quello del lupo nelle steppe e dello stupore del camminare solo nella nebbia, lui, l’isolato, questi luoghi li amava. Come li avevano amati gli improbabili teosofi del monte verità e qualche anno dopo i dada rifugiati ad Ascona, quand’ancora si credeva che il ventesimo secolo sarebbe stato grandioso.
Prima ancora s’erano inerpicati in val Bregaglia gli idealisti puri, quelli che cercavano assieme dio, la luce e l’illuminazione e poi immettevano l’aria nelle trasparenze dei quadri che dipingevano, oppure questi quadri li facevano scurissimi, nelle stalle, quando veniva notte. Anarchici.
Il contrasto vicino fra l’alto e il basso, fra il gelo e il tepore, fra l’esaltazione e la melanconia, fra l’ansia oscura e il panico solare li ha portati tutti, sempre, ad essere intimamente espressionisti, Segantini e i Giacometti, Cuno Amiet, Varlin e Felice Filippini.
Il Ticino muore nel Po, a Pavia, ma nasce in mezzo ai tormenti e diventa adulto nel lago. Le antiche popolazioni dell’Insubria s’erano sparse duemila cinquecento anni fa su questa linea e sconfinavano ad oriente fin sui colli dei camuni. Avevano eletto Milano a capitale. Forse è insubrico il germe della curiosa esuberanza lirica che regolarmente ricompare su queste terre. Quella della scapigliatura lombarda che scompigliò l’ordine dei puristi, quella di Emilio Gola, quella di Arturo Tosi che sul finire dell’ottocento dipingeva dei quadri che chiamava alcolici e sembrano all’occhio d’oggi informali con mezzo secolo d’anticipo. Un germe che ricompare quando s’incrina l’ordine razionalista che Carlo Belli voleva dare agli artisti guidati da Perego e da Ghiringhelli nel 1930, perché ad altro si convertirono subito i nuovi arrivati, Melotti e Fontana, Birolli e Licini, ad un espressionismo atipico, acido e poetico al contempo.
È giunta l’ora di vedere cosa combinano questi insubri agli albori del terzo millennio della cristianità. È giunta l’ora perché dai luoghi sanciti, da New York, da Berlino, da Parigi, da Londra, giungono sbadigli, dalle biennali, triennali, quadriennali vengono sagge lezioni di conformismo imparato a scuola. Decine di fiere nazionali e internazionali tentano si far scoprire ciò che non c’è, l’alternativa.
L’altro è altrove. È in tante esperienze marginali che si compiono in luoghi di frontiera.
Intanto Fabrizio Soldini dipinge i guardiani della Via Mala.
Evoca eroi che sono scesi dalla roccia per cavalcare motociclette cromate sulle strade diritte dell’Arizona. Insegue fantasmi atavici.
Suo padre, suo nonno, suo bisnonno hanno esercitato a Novazzano, nel Canton Ticino, la professione di buralista postale, mestiere mitico nella confederazione elvetica dove il sogno era affidato al colore dei francobolli e l’avventura alla passeggiata per le consegne. Lo studio di Fabrizio Soldini è nella stessa loro casa, al piano alto dove vede i monti e una curva di strada, che però si chiama piazza ed è intitolata a Carlo Fontana, un signore di lì. Tempesta in un bicchiere. Stabilità e follie. È lì che sorgono i suoi mostri, ectoplasmi di tensioni cerebrali che si allenano su fogli di carta disegnata prima di concretarsi su tele, vaste o oblunghe secondo le loro necessità vitali. Vitalità di apparati digerenti dalle bocche dentate, corpi decomposti in ricomposizione, totem venuti da chissà dove che si sovrappongono con tagliente precisione a questi corpi, su fondi vibrati da schizzi di materia colorata. Un sabba.
E al piano di sotto, sul fuoco domestico d’un vecchio camino da cucina bolle, nel pentolone nero appeso, l’acqua per la polenta. Gli amici stanno arrivando per cena.