di Rossella Canevari
Se nell’esperienza estetica il sentimento trova nell’opera d’arte un correlativo oggetto, la pittura di Fabrizio Soldini trasmette certo una forte carica emotiva. Il confine delle forme pulsanti e pregne di una vita ancestrale si perde in una esplosione di colori che solo una gestualità tribale ma mossa da uno sguardo profondamente introspettivo potrebbe dare. È infatti la concreta gestualità della mano che attraverso il colore sembra creare squarci su nuovi mondi dove pullula la vita come microcosmi affacciati sulla visione caotica della tela.
Così, attraverso la gestualità e il cromatismo emerge la ricerca dell’autore, la sua evoluzione che parte dal «kaos» e traspone il suo universo in una dimensione atemporale e primitiva. Ma l’immediatezza che colpisce al primo sguardo è data dall’approccio che l’artista ha con la pittura: giocoso, attraverso un’impulsivo utilizzo del colore e delle forme archetipe smorza la serietà delle tematiche in una rabbiosa «leggerezza dell’essere», rabbiosa perché la tensione emozionale esplode apertamente sulla tela.
Appare evidente nell’impulsività gestuale la sua comune radice con l’Action Painting, ma lo sviluppo di temi metafisici lo porta a trovare armonia nelle linee, nella mancanza di definizione delle forme che fanno parte del tutto. Nell’irruzione di questo magma cromatico di colori accesi e vibranti appaiono però sulla tela lampi di umanità: volti, mani, occhi, spettri, forme plasticamente note che mostrano attraverso il recupero di elementi figurativi il frammentario rapporto del pittore con la realtà, con l’incessante divenire delle cose che egli coglie da un punto di vista dinamico, come osservando dalla sua motocicletta in corsa.
È infatti in sella alla sua motocicletta, metafora meccanica, che l’artista si rappresenta solcando un paesaggio extraterrestre popolato di demoniache creature che lottano quasi cercando di liberarsi dai simulacri corporei, forse per trovare nuove «certezze», nuove definizioni formali.
L’incessante ricerca che sonda anche le zone più remote della memoria, fa trasparire o irrompere forme familiari, come un lampo di luce nel «kaotico» cromatismo, e cerca di trasporre il ricordo e non solo dalla memoria propriamente individuale ma anche da quella collettiva, attraverso la rappresentazione di archetipi, scritture antiche, simboli.
La pennellata in questa ricerca spirituale funge da tramite, da inversione esterna del flusso psichico.
L’incontro con le forme esterne e l’immediatezza del primo sguardo, dovuta anche alle grandi dimensioni della tela, sono incontro istintivo, giovane e vivace, ma l’alchimia dei colori non svia lo spettatore da una seconda lettura, quella delle forme interne che lo proietta a un livello eterico, originario, gestuale, direi turbinosamente spirituale. Questi due livelli di lettura, dialetticamente compresenti, trovano una sintesi nell’armonia dell’opera.
Contemplando dunque l’opera, riusciamo a scorgere il riflesso di Fabrizio Soldini che vi si specchia, lo intravediamo attraverso le sue visioni rese reali sul palco della tela oppure attraverso la sua realtà visionaria. Quella gestualità catartica, sprizzando il seme vitale crea fluttuanti processioni di uomini-demoni che portano in sé l’intrinseca dualità (vita-morte, bene-male) e si palesano nelle violente contrapposizioni dei toni. La pre- senza dell’uomo demone, sentita fortemente fino alla fine degli anni ottanta, è un personaggio straniero a se stesso gettato in
un’esistenza estranea, in un mondo e in una spazialità estranea ed ostile dove l’intesa tra la figura e lo spazio, tra l’uomo e il suo destino non è possibile, dove troneggia il solitario grido dello «Xenon» per eccellenza: l’artista.
Fabrizio Soldini che nell’ebrezza della velocità della sua visione passa attraverso alla vita e alla morte di altri mondi che segretamente con una grafia personale disvela nel modo a lui più congeniale della pittura. Ma nella sua crescita artistica e soprattutto spirituale le presenze si sono evolute diventando affioramenti indistinti deformati fino all’irriconoscibile da una potente carica verticale che si avvicina sempre più alle elevate zone della pura speculazione dialettica.
La liberazione dai condizionamenti dei falsi doveri e delle responsabilità diviene dunque effettiva e totale con la creazione di quell’inconscio contenitore delle paure originarie, superbo «giocattolo» pluri-sfaccettato che è il flipper; risoluzione di antichi problemi, tensione verso nuovi, dove ancora potrà condurlo questa ricerca?